SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
“Emergenza Educativa” -Sintesi di alcuni dati empirici
Un dato di partenza

L’emergenza educativa è oggi al centro dell’attuale dibattito pubblico dopo che per anni a livello politico e sociale è stata considerata quasi un fanalino di coda rispetto ai temi in agenda. la “questione educativa” resta il pilastro centrale per la società del terzo millennio. Emerge dal Rapporto-proposto La sfida educativa curato dal Comitato per il progetto culturale della Cei e pubblicato dall’editrice Laterza. “La discussione sull’educazione e sulla scuola è spesso stata ridotta ad un terreno di battaglia per tecnici e funzionari o per specialisti di tecnologie informatiche – si legge nel Rapporto -. La valenza educativa e culturale delle istituzioni formative è passata spesso in secondo piano, come se questa fosse marginale o solo funzionale ad interessi e sistemi sociali”. Di seguito una breve sintesi delle indagini condotte attorno al tema “emergenza educativa”. Da una ricerca condotta nel 2007 su Sussidiarietà ed educazione risulta che il 61% delle famiglie (e il 46% degli imprenditori) considera l’educazione la prima emergenza nazionale e che un altro 35% la considera tra le prime emergenze.

Le principali ricerche

Inoltre una recente ricerca dal titolo La professione docente: valore e rappresentanza (Nomisma 2009), promossa dall’Anp (Associazione nazionale dei dirigenti e delle alte professionalità della scuola) che ha coinvolto 5000 docenti, viene sottolineato con forza l’esigenza di recuperare un ruolo sociale di primo piano strettamente legato ad una valorizzazione della professione e ad un maggior riconoscimento economico. Per ottenere questo risultato, il 57% è favorevole alla introduzione di un sistema di retribuzione differenziato, il 66% è favorevole ad una valutazione della carriere basata sul merito. La metà degli intervistati (49%) dichiara che i sindacati della scuola hanno una posizione debole nel promuovere le innovazioni professionali di cui la scuola e gli insegnati hanno bisogno, il 55,4% ritiene che rispetto alle battaglie degli ultimi anni, i sindacati della scuola non abbiano ottenuto risultati significativi.

Dal punto di vista socio-culturale

Sotto il profilo socio-culturale, l’emergenza educativa è connessa in primo luogo al disagio diffuso che caratterizza la condizione giovanile nelle società occidentali e che si manifesta nelle forme più disparate, dalle domande di senso, alla mancanza di certezze, alle forme (vecchie e nuove) di dipendenza. Da recenti indagini (Garelli, Palmonari, Sciolla 2006) emerge che il 22% dei giovani ha «poca» o «nessuna» fiducia nella scuola, che circa un terzo ne ha «così, così»; il 23,5% degli studenti (Argentin, Cavalli 2007) si sente «spesso» o «sempre» oppresso dall’idea di andare a scuola, è interessante osservare che questo fenomeno riguarda non solo coloro che hanno voti bassi (33%), ma, sebbene in misura minore, anche coloro che ottengo i voti migliori (15%); il 28% degli studenti si pone «spesso» o «sempre» la domanda su «che senso ha essere a scuola», nei licei e nei tecnici circa il 30% degli studenti prova «noia» nello stare a scuola, il 60% dei liceali (il 50% dei «tecnici» e il 47% dei «professionali») è «sempre» o «spesso» stressato per lo sforzo di conseguire risultati scolastici. A questi dati si aggiunge quello, non meno preoccupante, della strisciante incertezza che caratterizza i giovani: il 56,9% (età compresa tra i 15 e i 34 anni) ritiene che anche le scelte più importanti della vita non sono mai «per sempre», possono essere sempre riviste» (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2007), il 68,8% di chi ha tra i 18 e i 30 anni ritiene che tra gli uomini di cultura, viventi o passati, uomini o donne, non ce ne sia uno che rappresenti per lui un punto di riferimento (Censis 2002).

Il fenomeno delle dipendenze

Altro dato inquietante è costituito dalle vecchie e nuove forme di dipendenza in cui incorrono i giovani. I dati epidemiologici mostrano che tra i ragazzi scolarizzati il 15-20% abusa abitualmente di sostanze alcoliche, il 29,2% ha fatto uso (almeno una volta nella vita) di cannabis; il 6,3% di cocaina; il 4,7% di stimolanti; il 4,4% di allucinogeni; il 2,2% di eroina (i dati sono tratti dalla Relazione annuale al parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia. Anno 2007). Accanto alle dipendenze fisiche, sono in forte aumento anche nuove forme di dipendenza psicologica, molte delle quali sono legate ad un uso compulsivo di internet e delle nuove tecnologie della comunicazione.

Emergenza educativa e immigrazione

Tra i fattori strutturali che richiedono di riflettere sul senso dell’educazione va ricordato anche il fenomeno sempre più massiccio dell’immigrazione che interessa i paesi occidentali e che porta ad un incontro tra culture che costringe a ripensare radicalmente, e in modo non sempre agevole, consolidati modelli di convivenza e di relazioni educative. Il numero di cittadini stranieri residenti in Italia è passato (cfr. Istat 2009c) da 1.356.590 del 2002 a 3.432.651 del 2008, il numero di minori è passato da 299.000 a 760.733. Gli stranieri iscritti nelle scuole italiane, superavano di poco i 307 mila nell’anno scolastico 2003/04, sono diventati 574 mila nell’anno scolastico 2007/08, con un aumento dell’87 per cento. Che atteggiamento assumono i giovani di fronte a questo fenomeno?
Dalla Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione giovanile emerge ad esempio che il 32,4% dei giovani (15-34 anni) è «molto d’accordo» e il 37,4% è «abbastanza d’accordo» con l’affermazione «nel nostro paese ci sono troppi immigrati»; il 43,7% degli intervistati (-10,4 rispetto ai dati della ricerca Iard del 2000) è d’accordo («molto»+«abbastanza») con l’affermazione secondo cui «gran parte degli immigrati svolge attività criminali o illecite», il 35,2% degli intervistati (+5,3 rispetto ai dati della ricerca Iard del 2000) è d’accordo («molto»+«abbastanza») con l’affermazione secondo cui «gli immigrati portano via posti di lavoro ai disoccupati italiani». È degno di nota anche il fatto che il 37,5% degli intervistati (+9,7 rispetto ai dati della ricerca Iard del 2000) ritiene che la cittadinanza italiana debba essere concessa solo a chi ha almeno un genitore italiano o radici etniche italiane.

Quando si parla di emergenza educativa, i primi dati a cui di solito si fa riferimento nell’ opinione pubblica sono quelli inerenti alla scuola, in modo particolare si richiama il livello di preparazione degli studenti italiani (secondo i criteri Ocse-Pisa), i risultati raggiunti rispetto ai parametri indicati dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000 e il fenomeno del bullismo.

Il Programme for International Student Assessment dell’Ocse

Nel maggio 1998 l’Ocse avvia il progetto Programme for International Student Assessment (PISA), un’indagine che viene condotta a cadenza triennale su scala globale volta a monitorare la performance scolastica degli studenti quindicenni in tre ambiti: la capacità di lettura, la matematica, le scienze. Questa ricerca viene assunta dai diversi governi come un indicatore importante delle priorità da perseguire in ambito educativo. L’indagine Pisa 2006 mostra che il punteggio medio degli studenti italiani nelle competenze scientifiche è 475, la media dei 25 Paesi dell’Unione Europea partecipanti alla ricerca è di 497 e la media Ocse è di 500, complessivamente il 25,3% degli studenti italiani si colloca sotto il livello 2, che indica il livello base di conoscenza scientifica in grado di consentire loro di confrontarsi in modo efficace con situazioni in cui siano chiamate in causa scienze e tecnologia.

Per quanto riguarda la matematica, il punteggio medio degli studenti italiani è 462, a fronte di una media Ocse di 498, complessivamente in Italia il 32,8% degli studenti si colloca al di sotto del livello 2. Il punteggio medio degli italiani per quanto riguarda la lettura è 469, contro una media Ocse di 492, complessivamente in Italia il 50,9% degli studenti si colloca sotto il livello 3 che è stato individuato come il livello in cui gli studenti sono in grado di confrontarsi in modo efficace con contesti e situazioni di vita quotidiana in cui è richiesto l’esercizio della competenza della lettura. Tra il 2000 e il 2006, il punteggio medio degli studenti italiani in lettura è diminuito in modo significativo passando da 487 a 469, il punteggio medio per quanto riguarda la matematica invece non è cambiato in modo significativo passando nello stesso periodo da 466 a 462. I dati relativi agli scrutini intermedi dell’anno scolastico 2008/2009 confermano la situazione preoccupante: solo il 52% dei ragazzi nella scuola secondaria di I grado raggiunge la sufficienza in tutte le materie, il dato è ancora più basso (26%) nella secondaria di II grado, il 68% arriva alla vigilia dell’esame di Stato senza la sufficienza in tutte le materie.

Educazione: l’Italia vista dall’Europa

L’Italia arranca anche rispetto ad alcuni degli obiettivi fissati dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000 in vista del 2010: abbandono scolastico, acquisizione di competenze di base nella lettura, innalzamento del livello di istruzione, laureati in materie scientifiche, apprendimento permanente (cfr. Commissione Europea 2008). Il tasso di dispersione (inteso come percentuale di coloro che avendo una età compresa tra i 18 e i 24 anni hanno abbandonato gli studi senza aver conseguito un titolo di studio di scuola superiore), nel 2007 in Italia era ancora del 19,3%, in calo rispetto al 30,1% del 1997, ma ancora lontano dal valore del 10% indicato nella strategia di Lisbona ed sopra il dato medio (15,2%) dei 27 paesi dell’Unione Europea. Nel 2000 la percentuale nell’UE di giovani di 15 anni con cattivi risultati nella lettura era del 21,3% (dati disponibili solo per 18 Stati membri). Secondo il parametro di riferimento questa percentuale dovrebbe ridursi di un quinto nel 2010 (raggiungendo così il 17,0%). In Italia si è passati invece dal 18,9% (dato del 2000) al 26,4% (dato del 2006), nella Ue dal 21,3% al 24,1%. In entrambi i casi dunque invece di un miglioramento si è registrato un peggioramento. In Italia ci sono inoltre zone in cui l’analfabetismo è ancora diffuso: in Basilicata il tasso di analfabetismo è del 13,8%, in Calabria del 13,2%, in Molise del 12,2%, in Sicilia dell’11,3%.

La percentuale di giovani (20-24 anni) che hanno completato il ciclo di istruzione secondaria superiore è in Italia del 75,5% (la media nell’Unione Europea è del 77,8%) rispetto ad un dato di partenza nel 2000 del 69,4% e ad un obiettivo, atteso per il 2010, dell’85% (è ancora bassa in Italia anche la quota di quanti si iscrivono all’Università, il 41,2%). Nel 2007, il 48,2% della popolazione italiana dai 25 ai 64 anni possiede solo la licenza di scuola secondaria di primo grado; la percentuale sfiora il 60% in Sardegna, Sicilia, Campania e Puglia. L’Italia si trova agli ultimi posti della graduatoria Ue insieme a Spagna, Portogallo e Malta.

La formazione permanente

Per quanto riguarda la formazione permanente (intesa come la percentuale di popolazione di età compresa fra 25 e 64 anni che ha partecipato ad attività di istruzione e formazione nelle quattro settimane precedenti l’indagine), in Italia dal 2000 al 2007 si è passati dal 4,8% al 6,2% rispetto ad un dato atteso per il 2010 del 12,5%. L’unico parametro in cui l’Italia primeggia è l’aumento dei laureati in materie scientifiche atteso per il 2010. Il dato atteso nell’Unione Europea è del 15%, l’Italia ha già raggiunto questo obiettivo ed è insieme alla Polonia il paese che ha avuto l’incremento percentuale maggiore. I dati riferiti alla Strategia di Lisbona, che sono stati riportati, non sono i soli ad essere indicativi dello stato di salute degli studenti (e della scuola) italiani, ad essi andrebbero aggiunti altri indicatori oggettivi come il tasso di trasferimenti da una scuola superiore a un’altra di tipo differente, l’interruzione di almeno un anno del corso degli studi, la ripetizione di anni scolastici, i debiti formativi contratti nel corso degli studi. A proposito di questi ultimi due dati, al termine dell’anno scolastico 2007-2008 sono stati promossi il 59,4% degli studenti delle superiori, sono stati ammessi con giudizio sospeso il 26,9% e non sono stati ammessi il 13,7%. La matematicaèla materia in cui gli studenti incontrano le maggiori difficoltà: il 45,7% degli ammessi con giudizio sospeso dovrà dimostrare di aver superato l'insufficienza in questa disciplina. La seconda materia più ostica è la lingua straniera (il 30,6% degli studenti ammessi con giudizio sospeso ha un debito in questa materia). Seguono le altre discipline scientifiche (fisica, chimica, biologia, etc.) col 23,6% e l’italiano con il 14%.Gli istituti tecnici sono quelli in cui ci sono più alunni con giudizio sospeso (il 30%), la scuola con meno studenti con giudizio sospeso è il liceo classico (21,2%). Tra i ragazzi con giudizio sospeso, quelli con una sola insufficienza sono il 39,3%, quelli con due insufficienza sono il 35,3%, quelli con tre o più insufficienze sono il 25,4%. La scuola con più promossi senza debito è il liceo classico (73,2%), negli istituti professionali, invece, meno della metà degli studenti (il 48,2%) è stato promosso senza debito. I giovani tra i 15 e i 19 anni che non vanno a scuola e non trovano lavoro sono quasi il 35% (un dato molto superiore alla media europea), quelli tra i 20 e i 24 anni che non studiano e non lavorano sono circa il 20%. Sono giovani fuori da qualsiasi contesto di formazione e di lavoro, che si trovano dunque in posizione estremamente fragile: giovani a rischio.

Bullismo, un fenomeno in aumento

Il bullismo, secondo il 9° Rapporto Nazionale sulla condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza, realizzato da Eurispes per il Telefono Azzurro, interessa a vario titolo il 35% dei ragazzi della scuola secondaria di primo grado e il 20% di quelli della secondaria di secondo grado. Per la maggioranza dei bambini, il bullismo è «una prepotenza contro un compagno più debole che si ripete spesso» (59,9%); per il 17,7% invece si tratta di «un’azione che va contro la legge». Quali sono gli atti di bullismo più diffusi? In primo luogo i brutti scherzi, di cui sono vittime (27,8%) poco più di un quarto dei ragazzi intervistati; seguono le provocazioni e le prese in giro (26,6%), le offese immotivate (25,6%), l’esclusione e l’isolamento dal gruppo (17,6%), i furti di oggetti o di cibo (13,5%), le percosse (11,5%), le minacce (11,1%), i furti di denaro (4,7%). Tutte queste percentuali sono più alte per quanto riguarda i maschi, ad eccezione dell’esclusione e dell’isolamento dal gruppo (20,2% per le femmine contro il 14,9% per i maschi).
Chi sono gli autori degli atti di bullismo? Nel 17,8% dei casi sono i contenei, nel 9,7% un ragazzo più grande, nel 6,2% un gruppo di maschi, nel 5,3% un coetaneo, nel 4,5% una coetanea. È interessante osservare anche come reagiscono le vittime agli atti di bullismo. Il 16,3% dichiara di non avere avuto reazioni, il 13,2% ha avvertito un insegnante o il Dirigente scolastico, l’11,7% ha detto al bullo di smetterla, il 9,8% è venuto alle mani, l’8,4% ha avvertito i suoi genitori, il 7,5% ha chiesto l’aiuto di altri compagni, il 5,9% è fuggito, il 3,6% si è messo a piangere. Circa un quarto dei bambini vittima di bullismo ha dunque adottato un atteggiamento passivo di fronte; un bambino su cinque ha invece reagito attivamente da solo; poco meno di un terzo ha preferito chiedere un aiuto esterno. Il 14% dei ragazzi della scuola secondaria di primo grado e il 16% della secondaria di secondo grado è stata vittima di atti di cyberbullismo nell’ultimo anno di scuola.

Quando si trovano di fronte a casi di bullismo, gli insegnanti intervengono rimproverando i responsabili (26,1%), prendendo provvedimenti disciplinari (19,6%), parlandone con i genitori (16,6%) o con il Dirigente scolastico (9,2%). Il 6,3% dei bambini afferma che gli insegnanti non si accorgono dei casi di bullismo, il 2,8% riferisce invece che non intervengono. Più della metà dei minori intervistati (56,2%) riferisce che a scuola gli insegnanti hanno parlato di bullismo, è però significativa anche la percentuale dei casi in cui l’argomento non è stato affrontato (il 39,9%).
Guardando il fenomeno del bullismo con gli occhi delle famiglie (Censis 2008b) emerge che il 57,6% ritiene che la responsabilità principale vada ricercata nell’educazione ricevuta in famiglia, il 51,4% rimanda a problemi relazionali (incapacità di inserirsi nel gruppo di pari e bisogno di attenzione), il 32,7% all’imitazione di scene violente viste in televisione, al cinema, nei videogiochi, il 24,7% ritiene che il bullo sia un soggetto prepotente e aggressivo per natura.

Educazione e famiglia

La famiglia rimane anche oggi un luogo fondamentale nell’educazione delle nuove generazioni: in una recente ricerca nazionale (Scanagatta 2007, 144), alla domanda «dove ha imparato le cose che per lei sono più importanti nella vita?», ben il 60,23% degli intervistati ha risposto «nella sua famiglia», il 14,51% «nel lavoro», il 5,87% «a scuola/università». Come emerga dal decimo rapporto sulla famiglia in Italia curato dal Cisf, nel 2006 il 93% degli italiani considerava la famiglia «molto importante» a fronte di un dato del 90% nel 1999 e dell’88% nel 1990. Sempre da questo rapporto emerge che circa il 92% della popolazione italiana riteneva nel 2006 di essere d’accordo con chi afferma che un bambino per crescere felice ha bisogno di una famiglia con un padre e una madre. Come è stato mostrato ormai da numerose ricerche, disagio giovanile e dispersione scolastica (cfr. Terenzi 2006) e successo formativo (Ribolzi 2003) sono connessi alla qualità delle relazioni familiari e delle reti sociali primarie, oltre che a fattori individuali e al clima scolastico (Scanagatta, Maccarini 2009; Donati, Colozzi 2006). Qualora le famiglie non siano incapaci di offrire proposte di identità e di senso, più facilmente insorgono carenze, vuoti e crisi in quei ragazzi che, anche in virtù di fattori individuali, sono incapaci con le poche risorse che hanno a disposizione (come capitale umano) di gestire le sfide che la società complessa pone. Al contrario, famiglie portatrici di un forte capitale sociale, famiglie in cui gli individui investono insieme nelle relazioni familiari (i vantaggi individuali dipendono dall’agire in quanto membri dell’unità familiare) e sono capaci di interscambi significativi con l’esterno generano le condizioni migliori per il successo formativo. Le relazioni educative sono tanto più capaci di generare l’umano, quanto più è elevato il capitale sociale dei genitori e quanto più i soggetti coinvolti sono capaci di concepirsi in termini relazionali.

Il 7° Rapporto Cisf

Da quanto detto si può comprendere perché le trasformazioni morfologiche e socio-culturali importanti che hanno interessato negli ultimi anni la famiglia italiana, e che erano già state individuate in nuce nel settimo rapporto Cisf del 2001 su Identità e varietà della famiglia. Il fenomeno della pluralizzazione, incidano profondamente anche sulle dinamiche educative. Tra il 2001 e il 2006 il numero complessivo dei matrimoni ha subito una significativa contrazione (-7,8%), soltanto in Slovenia e Lussemburgo ci si sposa meno che in Italia (4,1 matrimoni ogni 1000 abitanti, contro una media europea di 4,9 e contro un dato che nel 1972 era di 7,7 matrimoni per mille abitanti). I secondi matrimoni sono il 13,2% del totale. Ci si sposa meno, ci si sposa più tardi (32,8 anni gli uomini, 29,7 anni le donne), si fanno pochi figli (1,35 per donna, età media della donna al parto 31 anni). Il numero dei matrimoni religiosi rimane la scelta più diffusa (65,4%) anche se in calo rispetto al 2000 (quando erano il 75,3%). La regione con la percentuale più bassa di matrimoni civili è la Basilicata (12,8%), quella con la percentuale più alta è Friuli-Venezia Giulia il Trentino Alto Adige (53,3%). Il comune capoluogo di provincia con la percentuale di matrimoni civili più alta d’Italia è Bolzano (78,9%), seguita da Siena (74,5%), Firenze (67,6%). L’Italia è anche il paese europeo con la più bassa incidenza dei divorzi (8 divorzi ogni 10.000 abitanti), in termini assoluti però il numero dei divorzi è aumentato in dieci anni del 74% e quello delle separazioni del 57%. I matrimoni in cui almeno uno dei due coniugi è straniero sono stati nel 2007 il 13,8% del totale (gli stranieri residenti in Italia sono il 5,8% del totale). Dal 1993 al 2005 i bambini e i ragazzi fino a 17 anni che hanno entrambi i genitori che lavorano passano dal 36,3% al 43,4% e quelli con padre occupato e madre casalinga passano dal 45,2% al 36,1%. In Valle d’Aosta e in Emilia-Romagna si osservano le percentuali più alte di bambini e ragazzi con entrambi i genitori che lavorano, rispettivamente 67,1% e 59,5%, la Campania è la regione in cui è più diffuso il caso del padre occupato e della madre casalinga (52,8%). In Italia crescono anche (dal 6% all’8,2%) i bambini e i ragazzi che crescono con un solo genitore (a livello regionale, il dato più alto, 16%, si registra in Liguria).

Aumentano i figli unici (24,4%) e i bambini che hanno un solo fratello (52,9%) e diminuiscono i bambini che hanno 2 fratelli o più (22,7%). In Italia, al 1 gennaio 2008, c’erano 142,6 anziani (65 anni o più) ogni 100 giovani (che non hanno ancora compiuto i 15 anni): l’Italia è il paese più anziano di Europa (e in Italia la regione più anziana è la Liguria, la più giovane è la Campania). Questo dato appare particolarmente problematico se teniamo conto del fatto che la famiglia sembra oggi in difficoltà a generare quella alleanza tra generazioni senza della quale non esiste educazione e non esiste in senso proprio società. I giovani (Censis 2002) interpellati sulla esistenza di trasmissione di cultura tra generazioni vorrebbero che ce ne fosse di più (35,1%), che ci sia ancora ma meno che in passato (26%), che ci sia oggi più che in passato (19%) non sanno rispondere (19,9%). I dati finora riportati sulla famiglia sono solo una faccia della medaglia, in Italia ci sono anche numerose esperienze di famiglie associate capaci di generare beni relazionali e di rispondere ai bisogni che emergono nella società nell’ottica di una autentica gratuità. In questo modo hanno anche la capacità di porsi come interlocutori delle istituzioni nella formulazione e nella realizzazione di buone pratiche (Osservatorio Nazionale sulla Famiglia, 2007).

Comunità cristiana e responsabilità educativa

Una particolare responsabilità educativa nella società italiana spetta anche al laicato cattolico, una responsabilità che si esercita principalmente attraverso la famiglia, le parrocchie, le associazioni e i movimenti, la scuola cattolica, la presenza di insegnanti, tra cui un ruolo particolare spetta gli insegnanti di religione (che ormai, come emerge dall’Annuario 2008 sull’insegnamento della religione cattolica in Italia, nell’85,9% è costituito da laici). Da una indagine realizzata dall’Uffio della Cei per la pastorale della famiglia (2003) che ha coinvolto tutte le diocesi italiane (hanno rispoto in 171 su 225) emerge che nel 70% delle diocesi sono presenti iniziative di vario genere per la formazione permanente degli sposi e dei genitori (le «scuole per genitori» sono presenti nel 60% delle diocesi). In circa il 40% delle diocesi più della metà dei gruppi familiari ha origine da esperienze in ambiti associativi e/o legati ai movimenti. L’80% delle diocesi svolge attività formative per i propri operatori, il 60% delle diocesi ha beneficiato di inizative formative a livello regionale con partecipazione più selezionata, il 20% delle diocesi ha inviato persone a frequentare un Master in scienze del matrimonio e della famiglia. Oltre l’80% delle diocesi dispone di un consultorio familiare di ispirazione cristiana.
Negli ultimi anni, anche sulla scorta del Magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI e dell’ azione della Cei, sembra essere cresciuta la consapevolezza che la famiglia è il più importante luogo di socializzazione e il primo ambito di testimonianza: si segnalano a questo proposito due ambiti associativi paradigmatici come il Forum delle associazioni familiari (Donati, Prandini 2003) l’ Age e l’Agesc (Associazione Genitori Scuole Cattoliche) da sempre attive nel ricordare la fondamentale importanza della educazione per il bene della persona e della società.

Nel complesso, la situazione della scuola cattolica italiana nell’anno scolastico 2006-07 presenta sul piano quantitativo una serie di indici importanti in crescita rispetto al 1997-1998, come l’aumento degli alunni nelle scuole dell’infanzia, nelle primarie, nelle secondarie di 1° grado, nella Formazione Professionale, nel Nord e tra i maschi. Va rilevato che generalmente la crescita si registra in tutti i livelli in cui è presente una qualche sovvenzione pubblica o che sono immediatamente a ridosso di quelli. I punti di maggiore criticità vanno identificati nelle scuole secondarie di 2° grado, nel Meridione (Fidae e Confap), nell’Italia Centrale (Fidae) e tra le studentesse della Fidae. Dal 1996/97 al 2006/07 gli Istituti della Fidae sono diminuiti di 190 unità passando da 1498 a 1308 (calo del 12,7%). Il totale delle scuole è diminuito in un numero ancora più consistente passando da 2667 a 2301, con un calo percentuale del 13,7%. La riduzione riguarda, in particolare, le secondarie di 2° grado passate da 893 a 648 (-27,4%) e quelle di 1° grado (-15,4%). Tra il 1997-98 e il 2006-07 il totale degli iscritti alle scuole della Fidae è diminuito di 15.433 alunni (-5,5%), passando da 282.082 a 266.649 (il calo più vistoso è ancora una volta quello degli studenti delle secondarie di 2° passati da 81.163 a 63.993 con un calo di 17.620 unità pari al -21,6%). Tra le emergenze si può dunque inserire senza dubbio anche quella che potrebbe essere definita l’emergenza pluralismo, questo sia in termini di principio, sia in termini economici: per ogni studente iscritto in una scuola paritaria lo stato risparmia 5.532 euro (scuola dell’infanzia), 6.500 euro (scuola primaria), 7.582 euro (secondaria di primo grado), 8.057 euro (secondaria di secondo grado). Se chiudessero tutte le scuole paritarie, lo stato vedrebbe aumentare ogni anno la spesa per l’istruzione di 6 miliardi e 245 milioni di euro.

Associazioni e movimenti sono ispiratori e promotori non solo di scuole cattoliche, ma anche di centri culturali che con la loro presenza capillare sul territorio (il 4 novembre 2008 ne erano stati censiti 434 in tutta Italia, 288 nel Nord, 74 nel Centro, 72 nel Sud) costituiscono punti di elaborazione critica e di dialogo con i principali attori istituzionale e della società civile. Particolarmente significativa anche la responsabilità educativa di associazioni, movimenti e gruppi nei confronti dei giovani se si tiene conto del fatto che si può stimare (Censis 2002) che circa 1/3 di coloro che hanno tra i 18 e i 30 anni partecipa a una di questa forme associative (Azione Cattolica 15,3%, gruppi parrocchiali senza etichette 11,7%, Rinnovamento nello Spirito 2,3%, Neocatecumenali 2%, Comunione e Liberazione 2%, Terzi ordini 1%, Focolarini 0,7%).

I ruoli familiari e il lavoro

È ancora presente in Italia il problema della conciliazione tra ruoli familiari (in particolare la maternità) e il lavoro: con la nascita dei figli il 6% delle donne perde il lavoro e il 14% decide di lasciare per dedicarsi maggiormente alla cura dei figli. Il nesso tra sistemi formativi e lavoro presenta punti assai critici. Rispetto alla media degli altri paesi d’Europa, l’Italia è il paese dove la popolazione dei giovani che trovano impiego immediatamente dopo la formazione è più ridotta e dove la popolazione dei giovani che impiegano oltre due anni a trovare un lavoro dopo gli studi è più elevata; a questo si aggiunge che circa il 43% di chi ha un’età compresa tra i 15 e i 35enni svolge un lavoro che non ha attinenza con la formazione ricevuta. Se guardiamo all’importanza che i giovani attribuiscono ai diversi aspetti del lavoro (Zurla 2007), vediamo che prevale la dimensione soggettiva-espressiva («interesse per quello che si fa», «possibilità di esprimere la propria creatività», «opportunità di utilizzare la propria creatività») su che quella oggettiva e strumentale («stabilità del posto di lavoro», «retribuzione»). Il lavoro quindi per i giovani non dovrebbe avere solo, o prima di tutto, una valenza utilitaristica ma anche una valenza umanizzante e formativa. La richiesta di personale con elevato livello di titolo di studio da parte delle imprese ha mostrato negli ultimi cinque anni una continua tendenza alla crescita (come ha mostrato la ricerca L’istruzione tecnica. Un’opportunità per i giovani, una necessità per paese promossa dall’Associazione Treellle nel 2008), che si è accentuata nell’ultimo anno, nel quale per la prima volta la domanda di laureati e diplomati ha superato il 51% delle previsioni complessive di assunzione, mentre rappresentava solo il 37,9% appena quattro anni fa. In particolare, la richiesta di diplomati è passata dal 29,5% del 2004 al 40,6% del 2008. Paradossalmente, la popolazione dei giovani iscritti agli istituti tecnici sul totale degli iscritti alla scuola secondaria superiore è passata dal 45% del 1990 al 35% del 2007 (la percentuale degli iscritti ai licei è passata nello stesso periodo dal 32% al 42%).

La domanda di persone in possesso del diploma secondario è spesso subordinata al possesso di due requisiti: un’esperienza di lavoro più o meno specifica rispetto all’attività di lavoro che si andrà a svolgere e una determinata età. In particolare, quando si prevede di assumere un diplomato non ci si accontenta solo del possesso del titolo di studio, ma nel 56,4% dei casi si cerca qualcuno che abbia già maturato un’esperienza nel settore o nella professione. Solo per poco più di 4 diplomati su 10 non è richiesta esperienza oppure è richiesta una esperienza di lavoro generica. Circa ¼ delle imprese richiede che il diplomato abbia maturato almeno 3 anni di esperienza sul lavoro, circa la metà delle imprese richiede almeno 1 o 2 anni di esperienza, solo ¼ delle imprese non richiede nessun tipo di esperienza. A fronte di queste domande ben precise, si può osservare che ben i 2/3 degli studenti secondari non ha mai partecipato a iniziative di stage e/o tirocinio in impresa e che il 68% non ha mai avuto modo di entrare in contatto col mondo del lavoro (cfr. Associazione Treellle 2008). Analizzando l’età richiesta, emerge che nel 62,9% dei casi le imprese richiedono personale che abbia almeno 25 anni di età.

Tempo libero, mass media e sport

Per comprendere le trasformazioni delle dinamiche educative nella società italiana ha una particolare importanza l’analisi di come i ragazzi gestiscono il tempo libero che hanno a disposizione durante i giorni feriali che in media è di circa 3 ore (cfr. Buzzi, Cavalli, de Lillo 2007). Per i ragazzi tra i 15 e i 24 anni, le attività praticate almeno una volta nei tre mesi precedenti l’intervista sono le seguenti: andare al cinema (79,7%), andare in discoteca (76%), praticare uno sport (56,8%), assistere a una manifestazione sportiva (47,3%), andare in biblioteca (38,6%), andare a teatro (19,6%). Per quanto riguarda i consumi mediali, la televisione ha sempre un ruolo guida: il 40,6% degli intervistati la guarda dalle 2 alle 4 ore al giorno, il 9,1% degli intervistati la guarda più di 4 ore al giorno. Il numero di spot pubblicitari che mediamente un bambino guarda in un anno attraverso la televisione è 31.500, la media è di 90 al giorno.

Dalla ricerca Bambini multimediali (D’Amato 2006) emergere che guardare la TV è l’attività prevalente (31%) per la fascia di età 5-13 anni, lo studio si attesta come seconda attività al 20%, vengono poi «uscire» (16%), «giocare in casa» (12%), «giocare fuori casa» (7%), «fare sport» (6%), «videogame» (4%), «computer» (2%), «leggere giornalini» (1%) e «leggere libri» (1%). Le trasmissioni per ragazzi diffuse dai canali generalisti in Italia non occupano uno spazio privilegiato, nonostante i dati continuino ad affermare che la più grande costanza di ascolti televisivi è quella dei bambini e dei ragazzi che guardano la TV più di tutti e per più tempo di tutti. Eppure le ore dedicate espressamente a loro nell’ambito dei palinsesti sono relativamente poche, uno sguardo ai palinsesti è sufficiente a mostrare la sovrapposizione oraria dei programmi per bambini nelle prime ore del mattino (RAI Due e Italia 1 dalle 7 alle 9) e l’analoga situazione pomeridiana (RAI Tre e Italia 1). È anche per questo che si assiste sempre più frequentemente all’uso indiscriminato di TV per adulti fruito anche dai bambini nelle ore pomeridiane e soprattutto in quelle della prima serata.

I ragazzi si accostano alla Tv, e più in generale alle nuove tecnologie, in grande autonomia che in molti casi diventa vera e propria solitudine, come emerge dal Settimo rapporto nazionale sulla condizione della infanzia e dell’adolescenza. Più della metà dei ragazzi (54%) dichiara di avere il computer nella propria stanza e di navigare da soli (75%), prevalentemente il pomeriggio (63%) e la sera (29%). Lo stesso vale per la televisione: dove il 16% dei bambini tra i 7 e gli 11 anni guarda da solo programmi con il bollino rosso. La rete è anche un luogo rischioso: il 17% dei ragazzi e il 20% dei bambini dichiarano di essere stati infastiditi da un adulto in chat, il 22% degli adolescenti dichiara di aver incontrato dal vivo e da solo una persona conosciuta tramite Internet, definendo l’incontro pericoloso nel 5% dei casi. I ragazzi, però, raramente si confidano su questi aspetti: circa il 30% del campione non ha mai parlato con nessuno di queste esperienze negative vissute in Rete; anche quando lo fa, raramente si rivolge ad un genitore (13%). Nella ricerca Bambini connessi, condotta nel 2008 da Save the Children, emerge che il 52% degli intervistati (età compresa tra 11 e 14 anni), ritiene che in rete i coetanei fingano di essere qualcun altro, il 46,7% ritiene che pubblichino foto senza averne avuto l’autorizzazione dagli interessati, il 51% che raccontino cose non vere, il 41,8% che siano in chat con persone adulte senza esserne consapevoli, il 34,7% che cerchino materiali pornografici e il 41,3% che ricevano inviti da parte di sconosciuti.

Come si è visto praticare sport è una delle attività principali nel tempo libero dei ragazzi. Ma che valenza culturale ed educativa ha questa attività nella vita dei ragazzi? L’indagine Istat (2005) Lo sport che cambia. I comportamenti emergenti e le nuove tendenze della pratica sportiva in Italia, offre interessanti spunti di riflessione. Perché si pratica una attività sportiva? Gli uomini rispondono per passione/piacere (70,1%), per svago (51,8%), per mantenersi in forma (44,8%), per scaricare lo stress (24,8%) e per frequentare altre persone (20,8%), per stare in mezzo alla natura (12,2%), per i valori che lo sport trasmette (9,3%). Ai primi posti nella graduatoria delle motivazioni indicate dalle donne troviamo invece il tenersi in forma (56,3%), seguito dalla passione/piacere (51,6%) e dallo svago (46,8%). Le donne, inoltre, attribuiscono maggior valore alle potenzialità terapeutiche dello sport: il 16,6 per cento di esse, infatti, dichiara di praticare sport a scopo terapeutico contro, appena, il 5,9 per cento degli uomini. Riferendosi ai ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 17 anni, la ricerca individua quattro tipologie: gli sportivi onnivori, gli sportivi tecnologici, i sedentari culturalmente attivi, gli inattivi. Il primo gruppo (il 25,7% della popolazione di età compresa tra gli 11 e i 17 anni) si caratterizza per altissimi livelli di pratica sportiva e per una diffusa partecipazione alle attività culturali. La cultura dello sport si coniuga dunque con una disponibilità alla sperimentazione e alla polisportività (in media ogni individuo dichiara 1,5 attività sportive praticate). Per quanto riguarda i motivi che spingono alla pratica, gli sportivi di questo gruppo forniscono in media un numero maggiore di motivazioni, dovuta al fatto che lo sport è vissuto come una autentica esperienza formativa.

Gli sportivi tecnologici (il 28,8% del campione), associano la pratica sportiva ad un uso assiduo delle nuove tecnologie, per loro lo sport (in particolare il calcio) è anche o soprattutto spettacolo, visto e giocato. La passione e il piacere di fare sport sono le motivazioni prevalenti. I sedentari culturalmente attivi (20,8%), soprattutto ragazze, non praticano sport (nel 70,3% dei casi) per mancanza di tempo. Gli inattivi, il 24,8% del campione, non pratica sport per problemi strutturali economici o logistici e non sa dire con certezza quante ore al giorno guarda la televisione, segno di un uso frammentato della tv durante l’intera giornata. Un dato preoccupante connesso alla pratica sportiva è la diffusione del doping un fenomeno che, per tanti motivi, non è facile indagare. Alla luce degli studi (peraltro non numerosi) finora condotti (cfr. Ias 2004), si può affermare che circa il 5% dei bambini e degli adolescenti praticanti attività sportiva agonistica fa uso di sostanze dopanti (il dato è più alto in alcuni sport individuali, come il ciclismo e nella fascia di età compresa tra i 16 e i 17 anni). Altri dati preoccupanti riguardano le percentuali di uso proiettato che sono molto più alte (e raggiungono valori fino al 15-20%), la scarsa conoscenza delle sostanze dopanti e dei loro possibili effetti per la salute, l’elevata percentuale (poco meno del 40%) di maschi che praticando uno sport hanno verso il doping un atteggiamento non contrario (cfr. Sanguanini, Fumagalli, Filippi 2004). La valenza educativa dello sport praticato negli oratori, un elemento portante dell’educazione italiana del secondo dopoguerra sembra, almeno in parte, tenere. Una recente indagine conoscitiva sulla funzione dello sport negli oratori della Lombardia, realizzata dall’Università Cattolica, mostra che lo sporto è accolto negli oratori nel 27% dei casi come momento di aggregazione, nel 20% dei casi come momento di educazione, nel 15% dei casi come fatica, nel 10% dei casi come occasione di agonismo e nel 28% dei casi come divertimento.

 

 

Educazione, giovani e consumo

Nella formazione delle culture giovanili, una voce sempre più importante è costituita dalla voce consumi. Le più recenti ricerche su questo tema in Italia mostrano che gli stili di consumo sono assai differenziati, la ricerca promossa dall’Iref Scegliere il bene. Indagine sul consumo responsabile (cfr. Lori, Volpi 2007) individua tre tipologie prevalenti: i consumatori tradizionalisti, i consumatori narcisisti e i consumatori etici. I tradizionalisti (47,4% del campione) hanno un atteggiamento prudente verso il consumo caratterizzato essenzialmente da tre fattori: in primo luogo c’è un forte senso di concretezza, il bene acquistato o acquistabile è guardato principalmente alla luce di elementi concreti e oggettivi; in secondo luogo, il consumo è volto prevalentemente a soddisfare i bisogni primari dell’individuo, più che ricercare in esso altri tipi di gratificazioni, il consumo insomma ha una funzione strumentale prima che espressiva; in terzo luogo, questo tipo di consumatore è parsimonioso, limita gli acquisti e sostituisce gli oggetti posseduti solo quando diventano del tutto inutilizzabili. I narcisisti (36,8% del campione) utilizzano i beni soprattutto per costruire la propria immagine di sé e trasmetterla agli altri. Gli oggetti, dunque, svolgono una funzione di sostegno dell’identità individuale, mentre passano in secondo piano gli aspetti meramente materiali: i consumi sono finalizzati alla gratificazione personale. I consumatori etici (15,8%) hanno la tendenza a valutare attentamente sul piano etico le proprie scelte e i propri comportamenti di acquisto. In altri termini, questi intervistati sono, in buona misura, i principali artefici di una controcultura del consumo; cioè un sistema di valori che si contrappone alle regole del mondo della produzione e agli atteggiamenti consumistici diffusi nella società.

Per i consumatori etici i comportamenti di consumo responsabile sono pratiche abituali, coerenti con un insieme di principi e di valori. Secondo l’indagine Iref più di un italiano su tre adotta pratiche di consumo responsabile, si è passati da un dato del 28,5% nel 2002 ad un dato del 36% del 2007. Andando a vedere più in dettaglio i comportamenti di questi consumatori responsabili, sono state rilevate le seguenti preferenze (gli intervistati potevano esprimere più di una preferenza): acquisto di prodotti del commercio equo e solidale, 55,6%; adozione di stili di vita sobri, 51%; consumo critico, 29,2%; altre forme di consumo responsabile, 2,9%; finanza etica, 2%. È interessante anche conoscere i motivi prevalenti dei comportamenti di consumo responsabile adottati: perché il consumo e il risparmio debbono avere un fine sociale, 45%; per aiutare i paesi in via di sviluppo, 27%; per l’interesse alla qualità dei prodotti, 14,1%; per aiutare le organizzazioni che operano nel settore, 12,3%; altra risposta, 1,5%. Per quanto riguarda i canali attraverso cui il consumo critico viene conosciuto e socializzato, sono emerse le seguenti risposte: per mezzo di parenti, amici e conoscenti, 30%; per informazioni raccolte personalmente, 19,8%; per mezzo di articoli di giornale, 14,9%; per mezzo di programmi televisivi, 13,9%; per mezzo di banchetti per strada, 9%; tramite organizzazioni coinvolte di cui si era già a conoscenza, 5,3%; attraverso le parrocchie, 3,1%; per mezzo di comunicazioni postali, 1,5%; altro, 2,5%.

Un quadro per certi versi analogo emerge dall’analisi degli stili di consumo dei giovani e dei giovani adulti, età compresa tra i 15 e i 35 anni (cfr. Fondazione Nord Est 2006a). La maggioranza relativa degli intervistati (37,6%) è costituita da consumatori sobri, seguono i consumatori edonisti (il 37%) e i consumatori selettivi (25,3%). I consumatori sobri hanno un orientamento nei confronti del consumo ispirato a criteri di razionalità e di risparmio. Un prodotto è acquistato in quanto viene giudicato conveniente (22,2%), di qualità nella qualità (14,5%) e, soprattutto, in quanto ritenuto affettivamente necessario (45,1%). Gli edonisti sono invece giovani fortemente votati al consumo e si lasciano guidare nelle loro scelte dall’istinto e dai desideri, per loro i consumi sono un fine piuttosto che un mezzo. I selettivi hanno un atteggiamento circospetto nei confronti dei consumi, dovuto in parte a una minore disponibilità economica (sono prevalentemente studenti, 71,2%), ma anche a una maggiore propensione a selezionare in senso qualitativo i consumi. Il luogo di socializzazione principiale all’etica del consumo è la famiglia (64,5%). Sono saldamente vincolati nelle scelte alla famiglia, che riconoscono come uno spazio educativo centrale rispetto all’uso dei soldi e al giudizio sui beni di consumo.

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